Basta la parola: ribellione
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ribellióne (ant. rebellióne) s. f. [dal lat. rebellio -onis, der. di rebellare: v. ribellare]. (…). In usi estensivi e figurati: ribellarsi ai genitori, alla volontà dei genitori; ribellarsi alla disciplina; ribellarsi contro il destino, contro la sorte; di fronte a tutti quei soprusi, sentiva insorgere dentro di sé un senso di ribellione. (Da vocabolario TRECCANI)
Collochiamo la parola ribellione in un contesto in cui la cultura patriarcale e i suoi stereotipi fondativi producono discriminazione, sofferenza, ingiustizie, disuguaglianze, negando riconoscimento e dignità alle differenze. In specie a quelle fra i sessi.
In tal caso i soggetti penalizzati sono le donne. L’azione degli stereotipi sessisti forma nel senso comune l’idea che la condizione penalizzata sia normale, dunque non percepita come tale.
Se non si ha consapevolezza del carattere svantaggiato della propria condizione, si tende ad accettarla come un destino immutabile.
Una signora che ha subito violenza ha detto: “Il male fisico e morale che ho provato mi ha fatto capire che tutto quello che mi era stato detto in famiglia per educarmi non era giusto per le donne”.
Serve una presa di coscienza per rendersi conto e divenire consapevoli che quel destino si può cambiare. Lo si fa percependo se stesse come un soggetto capace di responsabilità, di decisione, di scelta, di esercizio di libertà e di diritto. L’esito di un percorso possibile di autoriflessione ed elaborzione.
Per uscire dalla violenza occorre ribellarsi al dolore, alla sofferenza, a un destino assegnato per riconoscere il proprio valore di persona libera in grado di autodeterminare la propria vita.
Dalla violenza si esce con la ribellione alla cultura che ci vuole dipendenti, passive, remissive, incapaci di pensare e di scegliere, prive di dignità.
La ribellione è presa di coscienza e coraggio di rompere gli schemi che ci condannano alla sofferenza e al dolore. E’ forza di essere.